What We Fight For: il docufilm che serve per capire come narrare la forza delle rifugiate
La newsletter di Cristina Giudici
Lo so, lo sappiamo, che alla maggior parte delle persone piacciono le storie che ispirano compassione e muovono viscere ed emozioni. Lo so, lo sappiamo, che è più facile immedesimarsi nelle vittime e sostenerle anche solo con un like sui social media. Ma la verità vera è che sono i protagonisti e le protagoniste di storie drammatiche, capaci di ribaltare il proprio destino, a fare la differenza. Per questo motivo vi consiglio di vedere il crudo e bellissimo documentario realizzato da Sara Del Dot, Carlotta Marrucci, Marta Antonioli in collaborazione con le organizzazioni umanitarie ReFocus MediaLabs e Walk of Shame.
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Ci hanno messo due anni e mezzo a realizzarlo, con un lungo giro fra la Bosnia, la Grecia, la Germania e l’Italia per riuscire a intrecciare le storie di due sorelle iraniane e una giovanissima afghana, diventata attivista in un campo per migranti. Nahid Akbari, afghana, ha tentato di superare il confine croato 40 volte dopo un viaggio durato anni. E ha raccontato il suo dramma con lucida razionalità, narrando la sua evoluzione da adolescente ad attivista oltre che testimone di quanto accade sulla rotta balcanica. Ora vive in Germania dove continua a battersi per i diritti dei migranti e dei rifugiati.
Eli e Sude Fazlollah invece sono due sorelle fuggite dall’Iran, dopo aver subito violenze, stupri, punizioni per la loro ribellione. Ora ad Atene insegnano a giovani donne e uomini richiedenti asilo come usare i media per ribaltare la narrazione perché, come ha detto Eli Fazlollah - presente all’anteprima del documentario indipendente prodotto da Nieminen Film e Oki Doki Film al Cinemino di Milano - “affermare di essere rifugiate spiega solo un frammento delle nostre vite”.
Nahid Akbari, Eli e Sude Fazlollah guardano l’obbiettivo della videocamera da una brevissima distanza che sottolinea la loro sfida e obbliga lo spettatore a concentrarsi sui passaggi più crudi del racconto. Parlano, come altre attiviste, dell’apartheid di genere che opprime le donne in Afghanistan e in Iran, ma non restano mai sul vago. Con un racconto aspro e autentico, spiegano passo dopo passo cosa hanno dovuto affrontare per emanciparsi. Nahid Akbari sembra una donna adulta ma ha solo sedici anni quando incontra le registe per la prima volta in un campo di migranti, dove si attende di trovare il coraggio per provare a passare di nuovo il confine ed entrare nell’Unione europea. Eli e Sude Fazlollah, una volta arrivate in Grecia, scendono in piazza per sostenere il movimento iraniano Donna, Vita, Libertà. E non mettono alcun filtro fra le esperienze più dolorose che hanno patito e chi le intervista, affidandosi con cieca fiducia a chi riprende le proprie parole, espressioni, riflessioni e denunce. Le sorelle iraniane collaborano inoltre al documentario con i video che realizzano nel centro ReFocus MediaLabs.
What We Fight For è frutto di un lungo lavoro collettivo che tutti dovrebbero vedere: perché è facile raccontare le vite dei rifugiati in modo pietistico ma diventa estremamente complesso (e originale) se si prova a dare dignità e giustizia a donne potenti che sanno dimostrare cosa significhi essere protagoniste delle proprie vite.
Leggiamo, facciamo cose e vediamo gente
📚I libri di NRW: Una nuova terra promessa
Non sono ancora gli Anni Sessanta. Gli Stati Uniti sono ancora un Paese dove vive la segregazione razziale. Nel 1957 nove studenti afroamericani, come loro diritto, si iscrivono alla Little Rock Central High School di Little Rock in Arkansas. Per impedirglielo il governatore dello Stato Orval Faubus fece prima schierare la Guardia Nazionale e poi chiudere per un anno tutte le scuole della cittadina, impedendo di frequentare le lezioni sia agli studenti afroamericani che a quelli bianchi. Ci volle l’intervento della Corte Suprema e del Presidente Dwight Eisenhower per sbloccare la situazione. Di questo e della situazione nel Paese, parla il reverendo Martin Luther King nell’intervista pubblicata nel 1960 dal settimanale dei Comboniani Nigrizia. A condurre l’intervista, una delle poche a un media italiano, lo scrittore italoamericano Joseph Tusiani. L’intervista insieme ad altri articoli di Joseph Tusiani apparsi su Nigrizia, è ora nel volume Una nuova terra promessa, pubblicato da Stilo Editrice.
Joseph Tusiani, professore di Letteratura italiana in varie università americane e traduttore di classici, dalle Rime di Michelangelo alla Gerusalemme liberata del Tasso e al Morgante del Pulci, è considerato uno dei più rappresentativi autori della letteratura italoamericana della seconda metà del Novecento. Poeta in cinque lingue, italiano, inglese, spagnolo, latino e dialetto garganico, sono memorabili soprattutto Gente Mia and other poems e l’autobiografia ora in edizione riveduta presso Bompiani, In una casa un’altra casa trovo, pubblicata nel 2016. Joseph Tusiani è morto nel 2020 a 96 anni. A San Marco in Lamis in provincia di Foggia è attivo un Centro Studi intitolato a suo nome. La recensione e un estratto di Una nuova terra promessa a cura di Fabio Poletti per NRW.
✌🏼Pratiche di cura per una riforma
Giovedì 13 giugno, si terrà un incontro molto significativo organizzato dall’intergruppo parlamentare sulla riforma della cittadinanza guidato dalla deputata Ouidad Bakkali e numerosi consiglieri comunali con background migratorio. Si comincia alle 10,30 alla Sala Matteotti di Palazzo Theodoli in piazza del Parlamento a Roma.
🇪🇺 Viva l’Europa
Dopo le elezioni europee e l’allarmante ascesa dei partiti di estrema destra, è più che mai necessario fare un ripasso sulla storia dell’Europa e i suoi valori democratici con il mitico Alessandro Barbero.
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Sono tempi complicati, non perdiamoci di vista 🕊️