Viaggio ai confini con l’Ucraina per asciugare qualche lacrima
La newsletter di Cristina Giudici
Quando siamo partiti mercoledì scorso - da Roncello, in Brianza - dove Stefano e Sara Pioltelli, Simone Ferretti e sua moglie Antonia Biscotti, i figli e tanti amici hanno caricato tutti gli scatoloni da portare ai confini della Polonia, c’era tanta attesa e ansia per il lungo viaggio di 4000 km fra andata e ritorno e pochi giorni a disposizione per individuare il punto migliore dove andare a raccogliere i profughi che volevano venire in Italia.
Non sapevamo ancora che il nostro angelo custode sarebbe stata Teresa Szkaluba, una volontaria polacca che per anni ha fatto la badante in Italia per far studiare i propri figli e ora lavora senza sosta nel campo sportivo della cittadina di Hrubieszov, a dieci chilometri dalla frontiera con l’Ucraina. È stata lei a dirci che dal 6 marzo ha asciugato molte lacrime. A parlarci del fuoco sui corridoi umanitari, degli stupri dei soldati russi, dei racconti di guerra che abbiamo sfiorato una volta arrivati a destinazione. È stata lei a individuare i nuclei familiari che abbiamo riportato indietro e inserito a fatica in alcune famiglie, luoghi di accoglienza. È stato un viaggio faticoso e pieno di imprevisti e finito bene grazie alla tenacia dei miei compagni di viaggio: Antonia, Marina e Massimiliano Barzaghi (tutte le immagini che vedrete sono sue). Prima di raccontarvelo, vi voglio presentare Teresa per farvi capire cosa succede nel palazzetto dello sport che in questi giorni è di nuovo affollato per degli arrivi causati da due bombardamenti.
I profughi incontrati in Polonia
Inizialmente dovevamo andare a Zosin, alla frontiera dove i miei compagni di viaggio erano già stati per portare in Italia alcuni profughi che avevano reti familiari in Italia due settimane prima. E invece siamo finiti a Hrubieszov, una cittadina a 10 km dal confine con l’Ucraina. Appena ci vede arrivare, dopo decine di telefonate da parte di Antonia, instancabile organizzatrice di questo viaggio, Teresa ci accoglie con un sorriso e ci chiede «Avete delle scarpe? Abbiamo bisogno di mandare le scarpe perché gli ucraini hanno camminano tanto per arrivare fino a qui. Avete medicinali? Benissimo, questi servono per i feriti, li mandiamo subito oltre il confine». Mi infilo con lei in una macchina che deve aver visto giorni migliori. «Lo sterzo non gira», dice sorridendo. In un attimo ci troviamo nel campo sportivo, dove all’esterno vedo una montagna di vestiti, passeggini, tende per i momenti di maggior sovraffollamento.
Una volta entrati nel palazzetto dello sport tacciamo, perché il fragore della guerra è assordante, ma il dolore non fa rumore. Centinaia di brandine ammassate. Mamme, bambini, adolescenti, alcuni padri, pochi, che sono usciti dall’Ucraina perché avendo tre figli, ci dicono, non erano obbligati a combattere. Teresa prende il megafono e chiede in russo chi vuole andare in Italia. I poliziotti ci identificano perché devono proteggere i minori. Teresa ci spiega che sono arrivati dei furgoncini dall’Italia con uomini sospetti che sembrava stessero scegliendo le ragazze più giovani e più belle.
Arriva Valeria che, come la maggior parte dei profughi che riporteremo indietro, viene dalla provincia martire di Kharkiv. Esuberante, ci mostra il bombardamento avvenuto qualche ora prima (venerdì scorso) di fronte alla casa di sua zia. Con una leggiadria che solo un’adolescente può permettersi. Valeria è la più reattiva del gruppo. Ha 17 anni, una madre giovane coi capelli mogano e gli occhi del colore del mare di Odessa. E siccome deve salvare anche la cugina rimasta da sola a Cracovia, ogni 5 minuti ci chiede se possiamo portare in Italia anche lei. Insomma ci sfinisce al punto che ci innamoriamo di lei. I due uomini e padri di famiglia che vengono con noi sono molto taciturni e diffidenti.
Io ho tante domande in testa ma me le tengo strette perché sono stati troppi i loro giorni negli scantinati a cercare di sopravvivere e capisco che, al momento della partenza per un altro luogo ignoto, sono disperati. Vogliono lasciare il palazzetto dello sport, ricominciare da qualche parte un pezzo di vita, in attesa di poter tornare a casa, chissà quando, nella provincia più martoriata dai bombardamenti russi.
Hanna è l’unica che parla inglese. È apparsa di colpo, col viso tirato e una risata che tradisce la profonda angoscia. «Portateci via di qui», ci spiega in inglese. «Mia figlia deve andare a scuola. Io sono una psicologa mio marito difende una fabbrica di armi, sono venuta via da Kiev per lei che deve avere un futuro. Vi prego, aspettate che faccio le valige e vengo con voi», ci implora agitatissima. Maria, sua figlia deve avere la stessa età di Valeria ma parla poco e solo con il traduttore di Google. Quando saremo sul pullman, prima di cadere in un sonno agitato, mi racconterà della sua amica con cui sta chattando. «Stiamo parlando di come sono cambiate le nostre vite», mi dirà. Io al sicuro verso l’Italia e lei a Kiev, con la guerra. Quando siamo ripartiti per Milano, la vera fatica doveva ancora iniziare perché i miei compagni di viaggio dovevano trovare una degna sistemazione per tutte le persone che avevano riposto fiducia in noi.
Siamo partiti mercoledì scorso e tornati sabato. Pochi giorni che mi sono sembrati eterni. Un racconto più dettagliato di questo viaggio lo potrete sentire presto nel podcast di Radici di Storielibere.fm ma voglio dirvi cosa ho annotato quando sul pullman è calato il silenzio.
Dopo la partenza, nessuno vuole più parlare. Qualcuno guarda fuori, qualcuno si rannicchia sulla poltrona. Le ragazzine si mettono la felpa sulla testa, i bambini piangono. Hanno un altro viaggio da fare, non sanno cosa li aspetta in una città ignota e lontana dalla loro casa che hanno perso. E io mi interrogo sul peso della vita.
Ora molti di loro hanno già trovato ospitalità, cominciato a studiare, mentre altri aspettano di capire come orientarsi. Antonia, superAnto come la chiamo io, continua a sentirli, cerca di assisterli in ogni loro esigenza. Massimiliano e Marina hanno trovato un appartamento per Hanna e sua figlia che stanno già studiando italiano. Nel frattempo William D’Amelio, altro volontario del gruppo di amici che hanno organizzato questa breve missione ai confini dell'Ucraina (tutti professionisti che hanno fatto diversi viaggi e ospitato profughi per rispondere agli imperativi della propria coscienza), ha portato in Italia una madre incinta con un figlio autistico.
Non c'è una morale nella storia che vi ho raccontato. Si tratta solo di una goccia presa dal mare di una catastrofe umanitaria. E non ci si può fermare qui. Dobbiamo andare avanti perché sono ancora tante le lacrime da asciugare.
Breve rassegna stampa di NRW
Uno su mille ce la fa. Torna la rubrica della nostra esperta legale, Irene Pavlidi. Questa volta ci racconta di una cittadina cubana che in Italia ha trovato una nuova vita grazie all’affetto di una persona anziana: Alto rischio: da Cuba a Milano, una storia a lieto fine. Un Oscar da dimenticare.I vincitori degli Oscar 2022 (di cui però non rimarrà altro che il ricordo di Will Smith che sale sul palco per prendere a sberle Chris Rock), visti da Elisa Mariani: Il ceffone di Will Smith agli Oscar 2022 (anche al suo). I libri di NRW: Il long read scelto da Fabio Poletti questa settimana è tratto da Là dove crescono i cedri di Pierre Jarawan: una storia d’amore verso Beirut la bella, devastata da guerre e crisi economiche, eppure sempre resiliente. L’altro fronte dell’esodo. Sono oltre 10mila i profughi che hanno transitato nel centro di accoglienza allestito a Siret da Fondazione Progetto Arca. Le storie di chi si è lasciato indietro un pezzo di famiglia, raccontate da Margherita De Gasperis: L’esodo degli ucraini raccontato dalla Fondazione Progetto Arca. Varsavia chiama, Milano risponde. La storia della giovane editrice e cantante polacca che vive tra Milano e Varsavia e pubblica libri per promuovere la parità di genere e aiutare i bambini in fuga dall’Ucraina. Mariarosa Porcelli: Natalia Moskal, l’imprenditrice della cultura che si ispira a Sophia Loren.