L’editorialista ospite. Stefano Pasta racconta la tragedia afghana vista da Lesbo
L'editoriale di Cristina Giudici
L’editoriale del giovedì per la nostra newsletter ritorna dopo la pausa estiva nel mezzo della catastrofe umanitaria afghana. Per questo motivo ho deciso di ospitare il racconto e le riflessioni di Stefano Pasta che nel mese di agosto è stato volontario nell’enorme (e disumano) campo per migranti di Kara Tepe sull’isola greca di Lesbo, proprio mentre l’Afghanistan si stava disintegrando nuovamente nelle mani dei talebani, 20 anni dopo. È lì, nel campo di Kara Tepe, che vengono bloccati migliaia di profughi, di cui quasi la metà afghani, su uno dei tracciati della rotta balcanica per impedire che raggiungano il cuore dell’Europa. Stefano Pasta ha potuto osservare il collasso dell’Afghanistan attraverso gli sguardi e le parole dei fuggitivi all’interno della Tenda dell’Amicizia allestita dalla Comunità di Sant’Egidio. Ho affidato l’editoriale di questa settimana a Stefano Pasta, ricercatore all’Università Cattolica di Milano e giornalista impegnato sul fronte dell’accoglienza ai migranti all’interno della Comunità di Sant’Egidio perché, una volta conclusi gli arrivi dei profughi attraverso il ponte aereo, ci ritroveremo da capo a interrogarci sulla rotta balcanica, i muri, i fili spinati che respingono i migranti e i profughi afghani e sulla disumanità dell’Europa che tanto invochiamo come simbolo dei diritti universali. Leggetelo e poi fateci sapere quali sentimenti e riflessioni vi ha suscitato.
Nei giorni in cui i talebani riconquistavano, una dopo l’altra, le principali città dell’Afghanistan, mi trovavo a Kara Tepe, il campo profughi più grande d’Europa che sull’isola di Lesbo ha sostituito quello di Moria, andato in fiamme nel settembre 2020. Qui, il 45% dei 4.200 profughi bloccati dietro il filo spinato e il muro del campo è afghano, quasi la metà minori. Come nazionalità seguono somali e siriani, a dimostrazione che la guerra più che esportatrice di democrazia è la madre di tutte le povertà. Tutti provengono dalla Turchia, le cui sponde sono talmente vicine da riconoscere le case quando il cielo è limpido.
Ai pashtun, tagiki e soprattutto ai tanti hazara di Kara Tepe sono arrivate subito le immagini dell’avanzata dei talebani e del nuovo scenario. Il giorno della caduta della sua provincia, Sher, hazara di Kunduz, mi mostra il video che ha ricevuto su Instagram in cui un suo amico, compagno di banco a scuola, viene trucidato davanti alle urla strazianti della madre. Poco dopo gli arriva dalla stessa città una chiamata in lacrime di sua mamma. Un’ora dopo l’appello: ‘Per favore, avverti qualcuno, salvaci’, scrive la sorella in un messaggio a cui il ragazzo non sa come rispondere.
Sher e i profughi di Kara Tepe sanno bene cosa significa il fallimento dello Stato afghano. Sono scappati per questo. Nessuno però sa quale sarà il destino dei dimenticati nel limbo di Lesbo da uno, due, tre anni, dopo che l’Ue ha rinnovato, lo scorso giugno (pagando ulteriori tre miliardi) l’accordo con Erdogan del 2016. La Turchia, oltre a bloccare i gommoni dall’Anatolia e riprendere nei propri porti quelli intercettati in mare, è considerato un “Paese sicuro”. Significa che le domande di asilo degli afghani giunti sull’isola greca vengono respinte in toto.
I suicidi dei profughi afghani
Ali lavorava nella logistica dell’esercito americano e quando ha capito cosa il ritiro degli occidentali avrebbe significato per la sua famiglia, è scappato con la moglie e i figli. Zahra, diciassettenne hazara, invece prende le gocce antidepressive per placare l’ansia da quando, nel 2019, ha tentato di ammazzarsi ed è stata salvata da una lavanda gastrica; anche Elyas, padre di due bambine, ha sul braccio le cicatrici del tentativo estremo.
L’uso di psicofarmaci e i suicidi – lo scorso mese si è impiccato dentro a un container di Schisto, campo di Atene, il ventiduenne afghano Hamid – sono il simbolo di come sia difficile continuare a sperare nel futuro per chi è bloccato da anni nel primo lembo di terra europea. A Kara Tepe i bambini non vanno a scuola, si può uscire solo alcuni giorni e in determinati orari; tra i rifiuti sono molto comuni le bottiglie piene di urina: soprattutto le donne hanno paura e nausea di andare nei pochi bagni chimici.
La Tenda dell’Amicizia
Tra i rari amici che non hanno dimenticato gli afghani e i profughi di Lesbo, 250 volontari della Comunità di Sant’Egidio, giovani e adulti provenienti da tutta Europa, da metà luglio alla fine di agosto, hanno scelto di venire qui, a turno e a loro spese, per mostrare un’Europa diversa da quella del filo spinato. Hanno montato la Tenda dell’Amicizia, rossa, ben visibile, proprio accanto a Kara Tepe. Qui al mattino si svolge la Scuola della Pace, dove i bambini studiano, cantano, giocano, sorridono. In altri gazebo, gli adulti imparano l’inglese, provando a costruire un pezzo di futuro. Al pomeriggio, le famiglie si siedono ai tavoli, finalmente all’ombra, e mangiano con un amico accanto che, con un po’ di inglese e la lingua internazionale dell’amicizia, mostra un volto europeo diverso da quello dei muri. Si prova, insomma, a cercare di non perdere la speranza sul futuro.
Lo scudo europeo e i corridoi umanitari per gli afghani
Intanto la Grecia costruisce un nuovo muro al confine turco, candidandosi ad essere lo scudo d’Europa. Più a nord-ovest, a Bihac in Bosnia, altri giovani di Sant’Egidio sono impegnati con attività di solidarietà e amicizia con i profughi del campo di Lipa. Siamo sulla cosiddetta rotta balcanica che porta all’Europa occidentale e, anche qui come in Grecia, la maggioranza è composta da cittadini afghani che in parte poi entrano alla frontiera di Trieste con le bolle ai piedi per i chilometri di cammino.
Proprio dal campo di Lesbo, negli ultimi mesi, la Comunità di Sant’Egidio ha permesso l’arrivo di un centinaio di profughi, soprattutto afghani, attraverso i corridoi umanitari. È il modello che in tanti abbiamo chiesto di applicare anche per l’emergenza umanitaria che in Afghanistan si è creata con la presa di potere dei talebani, oltre che da incentivare anche per i dimenticati di Kara Tepe. È una via praticabile che la Comunità ha avviato da 5 anni per salvare dai trafficanti di uomini: finora i corridoi hanno garantito un percorso di integrazione in Europa, soprattutto in Italia, ad oltre 3.700 profughi che stazionavano in Libano e in Etiopia, una piccola parte a Lesbo. Queste persone sono state inserite nel tessuto sociale e culturale locale dove singoli, gruppi informali e associazioni le hanno adottate, curandone l’apprendimento dell’italiano, la scolarizzazione dei minori, l’avvio al lavoro e altre iniziative.
Mentre i voli di evacuazione per i civili dall’aeroporto di Kabul sembrano essere arrivati agli ultimi giorni, occorre cercare il più possibile di aiutare gli afghani a rischio. Al contempo serve facilitare le procedure di ricongiungimento familiare e accogliere le domande di asilo e di protezione sussidiaria (54.000 richieste in Europa da afghani nel 2020 e 2021; sono afghani il 41% dei minori non accompagnati nell’Ue). In generale l’Italia ha una buona attenzione verso gli afghani, ma in Germania la metà dei richiedenti asilo afghani sono rifiutati; Danimarca, Svezia, Germania, Austria e Norvegia hanno anche in questi mesi attuato rimpatri forzati a Kabul dei richiedenti rifiutati all’asilo; ancora ad agosto Austria, Belgio, Danimarca e Grecia e Paesi Bassi hanno insistito perché tali espulsioni continuino nonostante la presa di potere dei talebani.
Accanto ai corridoi umanitari, Sant’Egidio ha fatto alcune proposte per alleviare la situazione degli afghani che sono già in Europa. La prima: sospendere tutte le espulsioni già decretate dai Paesi Ue. La seconda: superare il criterio di inammissibilità derivante dal principio del Paese terzo sicuro (la Turchia) applicato in Grecia per i cittadini afghani, ossia ridare futuro a ragazze come Zahra e gli altri dimenticati di Lesbo e dei campi greci. La terza: riesaminare le domande rigettate, in considerazione della grave situazione afghana.
A vent’anni dal 2001, il nuovo scenario afghano, che è drammatico ed è un fallimento anche nostro, chiede che tante visioni e impostazioni ristrette devono cadere. Non basta guardare con angoscia le terribili immagini che giungono da lontano: Zahra chiede una risposta concreta e immediata, che non può essere il filo spinato di Kara Tepe, né le proposte – assurde – di rimpatrio di alcuni Stati europei. Sher, salutandomi a Lesbo e indicando il campo, mi ha chiesto cercando una rassicurazione: «L’Europa però è diversa, vero?»