Calm down, il flashmob per le ragazze iraniane di Ekbatan al Giardino dei Giusti
La newsletter di Cristina Giudici
Ricordate la gioia e la “sfrontatezza” con cui cinque ragazze di Teheran, l’8 marzo scorso, hanno ballato fra i palazzi popolari del quartiere di Ekbatan sulle note di Calm Down di Rema e Selena Gomez? Dopo aver condiviso il video su TikTok, diventato virale ed emulato da tante ragazze iraniane (anche davanti al carcere di Evin), le ballerine ribelli sono state arrestate e obbligate a “pentirsi”, tornando negli stessi luoghi della protesta, velate, per chiedere scusa.
Guardare la loro danza che è un inno alla Gioia e poi il loro pentimento forzato fa male al cuore.
La loro danza ribelle è stata il punto di partenza per organizzare domenica 2 aprile, dalle 11 di mattina, al Giardino dei Giusti di Milano del Monte Stella, un flashmob dedicato alle ragazze iraniane che – capelli al vento, ombelichi scoperti - hanno sfidato il regime degli ayatollah
In collaborazione con l’associazione di attiviste iraniane Maana, quasi tutte artiste, l’evento è organizzato dalla Fondazione Gariwo «per dare un sostegno alle ragazze iraniane e tenere accessi i riflettori sulle proteste contro il regime che soffoca il nostro popolo da 44 anni», come spiega Rayhane Tabrizi, presidente dell'associazione Maana. E siccome il 2 aprile per gli iraniani è anche il giorno dell’inizio della Primavera, Sizdah bedar, si passerà una giornata immersi nella natura. Ci sarà anche un momento di raccoglimento davanti al cippo di Neda Agha Soltan, la studentessa uccisa nel 2009 a Teheran durante le proteste del Movimento verde e onorata al Giardino dei Giusti dal 2010. Alla fine della cerimonia, come prevede la tradizione iraniana, sarà possibile fare un picnic con il proprio pranzo al sacco. Il flashmob sarà un modo per tenere accesi i riflettori sulle donne che da anni entrano ed escono dalle carceri o si immolano per disperazione o per risvegliare l’attenzione sopita dell’occidente.
Come Narges Mohammadi che conosce solo un modo di vivere: lottando contro la teocrazia islamica dell’Iran per difendere i suoi e altrui diritti. E lo fa senza cautele. Come un funambolo che cammina su un filo teso senza una rete che ammortizzi l’impatto dopo la caduta. Una settimana prima di compiere 50 anni, ha “festeggiato” con un video-appello rivolto a tutti gli attivisti e difensori dei diritti umani. Registrato il 12 aprile del 2022, quando ha dovuto tornare di nuovo in carcere per scontare l’ennesima condanna di 8 anni di detenzione per presunti crimini contro la sicurezza nazionale dell'Iran. Sebbene la prigionia, l’isolamento, le torture, la malattia abbiano segnato la sua esistenza, nel video appare forte. Inspiegabilmente non ancora piegata dalla brutalità del regime iraniano. Con una chioma indomita di capelli scuri e ricci, un’espressione grave ma apparentemente serena, nel video mandato online il 21 aprile - il giorno del suo compleanno - dall’organizzazione umanitaria Front Line Defenders, afferma: «Cari difensori dei diritti umani, sono molto felice di condividere questo videomessaggio con voi oggi, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Oggi, alle 17, mi dirigerò verso il carcere, come tante altre volte, ma sono piena di speranza e libera da qualsiasi preoccupazione o frustrazione».
Narges Mohammadi è stata arrestata 12 volte, condannata complessivamente a 30 anni di carcere, oltre alle tante frustate. Attivista sin dai tempi in cui studiava all’università e aveva fondato il gruppo degli “Studenti illuminati”, ricorda la sua ultima campagna, fatta dopo la liberazione per gravi condizioni di salute, contro la tortura bianca: «Prima del mio arresto nel novembre dello scorso anno, insieme ad altri 85 attivisti, abbiamo avviato una campagna chiamata White Torture contro l'uso dell'isolamento nelle carceri iraniane. Crediamo che questa pratica debba essere fermata perché rappresenta una grave violazione dei diritti umani. Quattro mesi fa sono stata tenuta per più di due mesi in isolamento nel reparto 209 della prigione di Evin». Sul suo profilo Instagram compaiono spesso messaggi su quanto accade nel carcere femminile di Evin, appelli per i condannati a morte o storie di donne arrestate per aver osato fare la guerra ad Allah e detenute senza un giusto processo. Una sorta di radio carcere che serve a misurare la temperatura della ribellione e della repressione del regime iraniano. Potete leggere qui la sua biografia di combattente per diritti umani.
Piangeva mentre bruciava avvolta dalle fiamme, Homa Darabi, la mattina del 21 febbraio 1994 in piazza Tajrish, in uno dei quartieri a nord della capitale iraniana. Piangeva e gridava, non solo di dolore, soprattutto di rabbia. Le sue ultime parole, mentre si toglieva il velo, un ultimo gesto di sfida al regime degli ayatollah che l’aveva condannata alla morte civile togliendole tutto, soprattutto i diritti, anche se non finirono mai sui giornali iraniani passarono di bocca in bocca «Lunga vita libertà. Donna vita libertà. Morte al tiranno. Lunga vita Iran». Una frase soprattutto, "Donna vita libertà", riecheggia ancora oggi a Teheran e nelle altre città iraniane dove dilaga la protesta contro gli ayatollah che impongono il velo alle donne e arrestano e uccidono chiunque si opponga alle leggi islamiche applicate in modo assai rigoroso. E non è forse un caso che la tomba di Homa Darabi, al cimitero Behesth-e Zahra di Teheran, sia uno dei luoghi proibiti della capitale, guardato a vista dalla Polizia Morale di Ali Khamenei che aspetta solo un pretesto per intervenire con una durezza che sconfina nella ferocia. Potete leggere la sua biografia qui.
«L’obbligo di indossare il velo è diventato, simbolicamente, come il muro di Berlino. Quando il regime iraniano cadrà grazie alla rivoluzione guidata dalle donne e sostenuta dagli uomini, la barbara ideologia dell’islamismo dovrà cedere il passo alla democrazia e ai diritti umani. E il mondo, anche tutto l’Occidente, sarà un posto più sicuro». Per Masih Alinejad, la giornalista e dissidente iraniana più conosciuta della diaspora e più invisa al regime iraniano, è arrivato il momento. The time has come (il tempo è arrivato) è anche il motto usato in tutte le piazze europee per dare supporto agli iraniani che stanno combattendo a mani nude contro il regime. Potete leggere la sua intervista qui.
Ecco perché è necessario provare a immaginare cosa stiano passando da 44 anni le donne ribelli della Repubblica Islamica dell’Iran. «Proviamo a immaginare il loro coraggio quando, in pieno giorno, sono scese in strada per registrare in video la loro danza per la libertà per spronare altre ragazze alla resistenza», osserva Gabriele Nissim per spiegare il valore di questa iniziativa. «E poi immaginiamo l’umiliazione che hanno subìto, quando dopo pochi giorni sono state arrestate e, dopo un lavaggio del cervello, costrette a un pentimento forzato e a manifestare la loro sudditanza al regime negli stessi luoghi della loro protesta, indossando il velo e lunghi abiti neri tradizionali»
Per questa ragione dobbiamo diventare messaggeri della speranza e impegnarci affinché nei tanti Giardini dei Giusti fioriscano tante danze per la libertà e si gridi ad alta voce che a Teheran deve esser possibile un nuovo inizio di umanità per le donne
Qui trovate tutti i dettagli della giornata che inizierà con un flashmob guidato dalla ballerina iraniana Saba Poori venuta in Italia per studiare danza e che dopo le proteste ha deciso di non tornare in Iran.
La danza è stata sempre il mio sogno. In Iran ho conosciuto una maestra che mi dava lezioni in casa perché dovevamo nasconderci
L’appuntamento per le ragazze di Teheran è per domenica 2 aprile, dalle 11 di mattina, al Giardino dei Giusti di Milano del Monte Stella (via Cimabue). Per ballare, protestare, fare un picnic e esprimere solidarietà alle ragazze di Teheran che vogliono abbattere un nuovo muro di Berlino per la libertà di tutti.
Leggiamo, facciamo cose e vediamo gente
⭐️ I libri di NRW: Russo no
Inseguito da un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale dell’Aja, Vladimir Vladimirovič Putin è il primo criminale politico del XXI secolo. Occhi gelidi come il sorriso, un passato nel KGB – di stanza a Berlino nel 1989 quando stava venendo giù tutto, chiamava Mosca per chiedere se doveva sparare sulla folla – ha la phisique du role perfetta per finire come coprotagonista in un romanzo che sembra mica troppo inventato. Come se fosse uno dei cattivi di 007, per capirci. L’idea è venuta a Michail Ševelëv, autore di questo Russo no pubblicato dalle Edizioni e/o. Il plot narrativo inchioda sin dall’inizio. Una sera del 2015 il giornalista Pavel Volodin e sua moglie Tat’jana sono a casa quando viene diffusa la notizia che c’è stato un attacco terroristico. Oltre un centinaio di persone sono state prese in ostaggio nella chiesa dell’Epifania del villaggio di Nikol’skoe, vicino Mosca. Sullo schermo della tv appare il volto di uno dei terroristi: è Vadim Petrovic Seregin, detto Vadik, un vecchio amico di Pavel. L’amicizia tra i due uomini attraversa un’epoca di conflitti, guerre, pace, migrazioni e fughe. Pavel è forse l’unico amico di Vadik, e infatti è lui che Vadik vuole come negoziatore. Quando Pavel entra in chiesa c’è un terribile silenzio. Vadik lo accoglie ma si rifiuta di cedere. Man mano che la posta in gioco diventa sempre più alta, veniamo a conoscenza della storia di Vadik, incluso il suo legame con le guerre in Cecenia e in Ucraina, e diventa chiaro che il primo incontro tra i due uomini non era solo ciò che pensava Pavel. Tornato in chiesa, Pavel capisce che i terroristi hanno un’unica richiesta, che ha a che fare con il Presidente della Federazione russa Vladimir Putin. La memoria corre alla strage nel Teatro Dobrovka di Mosca nel 2002, quando un gruppo di indipendentisti ceceni prese in ostaggio 850 spettatori. Senza alcun margine di trattativa l’allora Primo Ministro Vladimir Vladimirovic Putin decise di passare all’azione. Dopo un assedio durato oltre due giorni, le forze speciali russe Specnaz pomparono un misterioso agente chimico all’interno del sistema di ventilazione dell’edificio, provocando la morte di 129 ostaggi e di 39 combattenti ceceni e facendo poi irruzione. Altre stime portarono invece la morte dei civili ad un numero superiore alle 200 unità proprio dovute all’irroramento del Fentanyl, un potente analgesico oppioide sintetico. E così realtà e narrazione romanzesca sembrano sovrapporsi in questo libro. Nato nel 1959, Michail Ševelëv si laurea in lingue all’Università di Mosca. Traduttore e interprete, collabora con il settimanale Moskovskie novosti, di cui diventa vicedirettore. Ha lavorato anche per Radio Svoboda (Radio Free Europe, Radio Liberty). È autore di due romanzi e di diverse raccolte di racconti, tradotti in varie lingue. Nel 2021 gli è stato conferito in Ucraina il Premio Isaac Babel’. A cavallo tra realtà e fiction, Michail Ševelëv racconta così la genesi del suo romanzo: «La voglia di scrivere queste pagine mi è venuta dopo che è stato chiaro a tutti che il giornalismo non era più un modo efficace di influenzare la realtà, ma che qualche speranza la dava ancora la letteratura». il long read di questa settimana è recensito e scelto da Fabio Poletti per NRW.
⭐️ Alto rischio: torna il decreto flussi insieme alla demagogia
Nessuna novità, anzi, per il decreto flussi sbandierato dal Governo come soluzione (oltre alla caccia dei trafficanti nel globo terracqueo che sembra ed è una barzelletta) per contrastare gli arrivi dal Mediterraneo. La programmazione triennale degli ingressi di lavoratori stranieri sbandierata a Cutro si risolve in un portale telematico per le domande aperto solo per poche ore. L’approfondimento nella rubrica della nostra esperta legale Irene Pavlidi.
Ci vediamo al Giardino dei Giusti e poi di nuovo qui, giovedì prossimo, daje